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Per il noto psichiatra e criminologo, il carcere è soprattutto una rete di relazioni umane e un labirinto di emozioni
Vittorino Andreoli

Tendiamo a ridurre il carcere a un luogo fisico con dentro dei corpi, sistemati in celle, e ci si limita a parlare degli spazi, dei servizi igienici, dei letti: una dimensione importante ma non

certo più di quanto emerge da quei corpi, magari nel silenzio, i desideri, i pensieri.
In questa dimensione il carcere diventa un luogo dei sentimenti, delle emozioni. In una parola: delle relazioni. E dobbiamo vederlo così poiché allora anche la sistemazione fisica assume un significato differente.
È più insopportabile la solitudine, l'isolamento psicologico, rispetto ai bisogni del corpo. Gli stati d'animo riescono a trasformare gli ambienti; come a dire: se è impossibile cambiare il mondo, muta il tuo umore.
Lo stesso luogo in condizioni di malinconia o depressione è totalmente diverso, e così se lo si occupa in condizione di serenità, di speranza.
Il carcere lo si descrive, di solito, come struttura abitativa, con tanti posti, tanti ospiti, con una direzione ampia o sacrificata, con o senza palestra, ebbene bisogna aggiungere una descrizione che veda il carcere come una rete di relazioni umane, come labirinto dei sentimenti. E allora i personaggi non sono i locali e le sale, ma gli uomini e donne che girano, che vivono, che sono prima di tutto persone con una storia e con dei bisogni psicologici. Una rete i cui nodi sono dati dai detenuti, dagli agenti, dalle figure professionali, gli operatori, che vanno dal medico agli assistenti sociali, a personaggi speciali come il cappellano.
Una città in cui vengono e escono parenti, magistrati, periti. Un luogo della colpa ma anche dei sogni e dei progetti. Un teatro dove si rappresentano vicende sentimentali, amori difficili e dove possono anche sorgere storie straordinarie per la ricchezza di umanità, proporzionata alle difficoltà di espressione e alla limitazione della libertà.
Se ciascuno entrando in una istituzione carceraria pensasse in termini di affetti e di emozioni, il carcere rimedierebbe a molti dei suoi limiti. Se non dimenticassimo mai che ogni detenuto è un uomo e non un mostro, che è uno con la voglia di amare, anche se ha espresso violenza e sopraffazione, il carcere migliorerebbe. Invece è ancora una istituzione che fa soggezione o paura.
Mi sono occupato di casi estremi, di delitti orribili, eppure ho incontrato sempre uomini, e uomini capaci anche di gesti di grande sensibilità. Omicidi con la voglia di piangere, con il bisogno di una madre o di una moglie che non c'è e che forse non si avvicina più, per paura. Ho trovato dentro i casi estremi dei sentimenti straordinari che mi hanno convinto che ogni uomo in carcere deve esser aiutato a ritornare nella società per dare tutto quanto è in grado di dare: generosità e amore.
Il carcere luogo dei sentimenti del detenuto, ma anche luogo dei sentimenti delle guardie che qui passano ore e ore: una vita dentro il carcere per seguire un dovere che è quello della sopravvivenza propria e della propria famiglia. Non conoscono per lo più le storie giudiziarie, ma molti di loro sanno, a perfezione, i bisogni affettivi di quegli uomini che essi stessi chiudono dentro le "gabbie" della pena.
Bisogna cominciare a guardare agli agenti penitenziari come "sentimenti in divisa": sono magari lontani da casa, lontani dallo sguardo di una fidanzata, senza sapere quando potrà arrivare un trasferimento che sa di vita. Anche gli agenti talora si sentono in un carcere del lavoro.
Ci sono poi gli "operatori": tutto quel personale che ha portato dentro il carcere, e lo deve fare sempre di più, una dimensione nuova: la lettura dell'uomo secondo le dinamiche psicologiche e anche quell'inconscio che talora spinge a comportamenti inaccettabili, come un automa che conduce al male, al male sociale. Professionisti che aiutano a capire e che animano il desiderio di uscire, cambiati, in condizione di poter esprimere il meglio di sé e non ciò che la legge sociale non può accettare.
C'è poi il cappellano: che bella figura, un uomo prima che un sacerdote. Io non credo nella città del cielo e uso tutte le mie forze per migliorare quella della terra, ma anche senza questa fede, non posso non apprezzare il cappellano, con la sua ingenuità nel proporre Dio anche quando servirebbe una donna, con tanto seno per ricordare una madre. Egli parla della Madonna, quando i sogni sono rivolti a una prostituta incontrata tanto tempo fa e che ora riempie i pensieri.
Ne sono affascinato perché crede alla propria missione. I cappellani sono veri: non si tratta di canonici delle Cattedrali, ma di poveri preti che se potessero prenderebbero il posto di ciascuno, per liberare le celle e incarcerarsi per sempre.
Sono triste quando lascio un carcere. Penso ai due sentimenti che dominano con particolare vigore in questa città: la speranza e l'odio.
In carcere ho capito quanta forza abbia anche la speranza: si erge contro ogni considerazione ragionevole, su ogni articolo di legge, sulla storia che sembra chiusa dentro decisioni "passate in giudicato". Non è un sentimento che io apprezzo abitualmente, l'ho sempre considerato all'origine della passività e della rinuncia persino comoda, in attesa del miracolo. Qui la speranza trova tutta la sua dignità: poiché è la forza che permette di vivere anche quando si è morti, che ti dà la possibilità di vedere fuori dalla finestra anche quando è ermeticamente chiusa. E nella speranza sorge anche quel Dio che io non ho mai incontrato, ma che va da quasi ogni carcerato, poiché in carcere se ne sente particolarmente bisogno. Serve anche un Dio che non c'è, un Dio della speranza, un potente che vada oltre il giudizio degli uomini e dica che esiste un mondo senza carceri e dove le porte sono tutte aperte.
C'è poi l'odio, la percezione di aver subito ingiustizia e di non meritarla. È diffuso l'odio per una pena eccessiva, per non aver ottenuto sconti che si pensa di aver meritato, per delle differenziazioni che appaiono ingiuste. L'odio per chi non viene a trovarti e magari è a casa che piange e continua a pensarti. L'odio per il tuo compagno di cella, che è l'unica compagnia che al momento possiedi. L'odio per il mondo e per se stessi.
Ma l'odio si alterna alla speranza e all'attesa che si realizzi l'impossibile che qualche volta, come nelle favole, succede.
Il carcere visto attraverso i sentimenti è un mondo ricco, esasperato, esasperatamente umano.

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